Alla galleria Officine dell’Immagine di Milano, fino al 2 aprile quattro artisti accomunati dal talento e dal rifiuto dell’etnico
ci mettono davanti a un’Africa combattiva e inedita
di STEFANIA RAGUSA
Maurice Mbikay è nato nella Repubblica democratica del Congo 43 anni fa e ha scelto tasti e parti di vecchi computer come materiale elettivo delle sue creazioni, con l’intenzione di porre l’accento sulla questione ambientale e lo smaltimento illegale dei rifiuti elettronici (problema che affligge vari paesi africani) e di scandagliare l’intreccio tra tecnologia e natura umana nella sua fenomenologia esistenziale.
Dimitri Fagbohoun, 45 anni, è nato in Benin, cresciuto in Camerun e trapiantato a Parigi da oltre 20 anni. Nelle sue installazioni fa dialogare le sue molteplici appartenenze (dal lato materno gli arriva anche un po’di Russia), esperienze (ha fatto mille mestieri prima di scegliere l’arte come approdo definitivo) e una varietà di elementi spirituali e religiosi.
Bronwyn Katz, sudafricana, classe 1993, è una body performer e artista multimediale fortemente legata alla sua terra e alla sua storia, anche in quei tasselli che rimandano alla memoria epica e archeologica che il colonialismo ha provato a cancellare.
Marcia Kure è del ’70, vive tra il paese d’origine, la Nigeria, e gli Stati Uniti d'America. I suoi collage astratti e surreali, che parlano di condizione femminile, valori esistenziali, paradossi della diaspora, sono presenti ormai anche in importanti collezioni museali. Li realizza giustapponendo foto, ritagli di giornali, pezzi di tessuto in una studiata alternanza di vuoti e pieni.
Mbikay, Fagbohoun, Katz e Kure sono artisti assai diversi l’uno dall’altro: per luogo di nascita, domicilio elettivo, temi, finalità, linguaggio e anche quotazioni di mercato. Li accomuna però un doppio fil rouge: il talento e la capacità di rappresentare, insieme e con efficacia, la varietà e la forza di sconfinamento della creatività africana contemporanea.
Attorno a loro la curatrice Silvia Cirelli ha costruito la collettiva We call it Africa, allestita alla galleria Officine dell’Immagine (www.officinedellimmagine.it) a Milano, dal 9 febbraio al 2 aprile. Una mostra che ha il pregio di evidenziare attraverso le opere quanto più volte è stato affermato, anche dalle pagine di Nigrizia, con le parole: non esiste l’Arte africana, monolitica e tribale, ma esistono molte arti, molte culture, molte Afriche in divenire e in relazione tra loro e con il mondo. Il singolare si usa per praticità, senza però attribuirgli un valore ontologico. E all’aggettivo africano non è corretto dare una connotazione e una forza superiori al sostantivo arte. Sono gli stessi artisti, in molti casi, a ricordarlo e a chiederlo. Ma è la conoscenza della materia che alla fine lo impone. E We call it Africa, mettendoci di fronte a opere così contemporanee e lontane dai cliché, offre una preziosa e inedita (per l’Italia, almeno) occasione di conoscenza.
«Sono sicura che in tanti troveranno un’Africa che non si aspettavano – ci dice Cirelli pochi giorni prima dell’inaugurazione –. Anche negli ambienti artistici l’immaginario sul continente tende a essere limitato e orientato dagli stereotipi». Africa uguale maschere, tamburi e grafica tribale o, al massimo, forme caricaturali e colori saturi in salsa etnico-pop. «Il nostro lavoro invece va nella direzione opposta e tocca anche la ridefinizione dei confini artistici e geografici. Quello che noi chiamiamo “Africa”, ossia la varietà di 54 nazioni e di una diaspora in movimento non può essere racchiusa in una sola parola. Tanto meno in una sola forma».
tratto da Nigrizia Marzo 2017