Africa oggi, lo stato dell’Arte

Simon Njami, scrittore, critico e curatore di grande levatura, ci ha rilasciato questa intervista lo scorso marzo, a Modena, in occasione del Premio Internazionale per la Fotografia 2016, vinto dal fotografo sudafricano Santu Mofokeng.

 

di Stefania Ragusa

Abbiamo parlato a lungo: della sua mostra sulla Divina Commedia riletta da artisti africani contemporanei, della 12° Biennale di Dakar che stava organizzando a velocità supersonica, di Mofokeng e dell’arte contemporanea africana, qualsiasi cosa questa espressione voglia dire. L’intervista - per ragioni indipendenti dalla nostra volontà - non è stata pubblicata e oggi, mentre a Parigi sta per aprire al pubblico la sua mostra 100 % Afriques Capitales  e Njami è atteso a Milano per l’inaugurazione di The White Hunter , la proponiamo attraverso Sisters’ Grace.

La mostra sulla Divina Commedia, che ha esordito al Museo d’Arte Moderna di Francoforte e ha poi viaggiato negli Usa, era attesa anche in Italia. Ma qui non è mai arrivata. Come mai?
(Fa una faccia divertita, come se avesse molta voglia di togliersi un sassolino dalla scarpa). E’ successo qualcosa che rivela i limiti dell'approccio italiano all’arte. La mostra aveva avuto un grande successo di critica e pubblico, ma spostarla costava oltre 300mila euro. L’università di Venezia si era dichiarata interessata, però non aveva le risorse economiche per coprire le spese da sola. Il museo Correr, che fa parte della Fondazione Musei Civici di Venezia, si è fatto avanti. Ma poi è successa una cosa strana. La persona che se ne stava occupando è stata male e non se n'è fatto più niente. Come se si fosse trattato di una questione privata o ad personam.

Un’occasione persa, probabilmente più per il pubblico italiano che per gli artisti. Come le è venuto in mente di fare una mostra come questa? Come l’ha costruita?
La Divina Commedia è un’opera complessa che ha un legame molto forte con il contesto in cui è stata scritta. E’ centrata sul problema di Dante con Firenze, sulla sua ossessione per Beatrice, e sul suo rapporto con Dio: tutto questo ne fa un poema cattolico e fiorentino, che serve al suo autore per regolare i conti con la sua città. Ho pensato di rivisitarlo in modo da renderlo più contemporaneo e meno “dantecentrico”, evidenziando tra l’altro come Inferno, Purgatorio e Paradiso non appartengano a una sola religione ma siano presenti con le loro varianti in molte altre fedi. Mi sono rivolto a una serie di artisti di origine africana, caratterizzati da background religiosi molto diversi, chiedendo di darmi la loro versione di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ammetto di averli un po’ manipolati: ho evitato che si preparassero leggendo Dante e in modo arbitrario, in base al tipo di conversazione avuta, ho assegnato a ciascuno di loro un'area. C'è stato chi mi ha detto: ma io non ho letto la Divina Commedia, dammi il tempo di farlo. Ho risposto: no, lavora in base alle tue suggestioni, all’idea che ti sei fatto di questa opera, a quel che non ne sai. Quando ho presentato la mostra negli Stati Uniti, paese in cui c'è un'illusione di democrazia (nella stessa stanza può capitare di trovare un contabile seduto accanto a uno spazzino…), ho spiegato che la mia intenzione era creare il disordine e attualizzare questi luoghi (inferno, purgatorio e paradiso) privandoli del loro misticismo. I contabili sembravano disorientati.

Lo siamo un po’ anche noi, che non siamo contabili ma comunque non eravamo presenti. Ci aiuti a capire.
Nella mia vita ho letto varie volte la Divina Commedia: a 14 anni, a 20, a 50 e poi in vista dell'esposizione. E ogni volta il testo mi è apparso differente. E' normale: le opere, dal momento in cui diventano pubbliche, vivono una vita propria. Ma il mio angolo preferito è sempre stato il limbo, una specie di sala vip che riunisce bambini non battezzati e grandi figure anteriori alla nascita di Cristo, (come Avicenna e Averroè). Nel limbo c'è qualcosa di molto contraddittorio. Troviamo Saladino ma non Maometto, che in fondo era il suo datore di lavoro ed è messo all'inferno. E’ stata proprio questa contraddizione a invogliarmi al disordine: rifare il viaggio e ricreare l’architettura del poema in modo paradossale. In Paradiso incontro Nietzsche che si lamenta per il comportamento di Dio: “Ho detto che lui è morto e mi ha messo in Paradiso. Ma io voglio andarmene da qui, mi sentirei meglio in Sala vip”. In Purgatorio trovo Aimé Cesaire, Léopold Senghor, Malcom X e Benito Mussolini, che è arrabbiatissimo perché non vuole stare in mezzo a tutti quei negri ma all'inferno, con i veri dittatori. Volevo divertirmi con questo testo, che è fortemente pittorico. Dante ha creato delle immagini e io ho voluto emularlo sovrapponendone delle altre pagane. E dato che sono più ricco di Dante, in questo mio viaggio mi sono preso tre guide: Caravaggio all'Inferno, Jean-Michel Basquiat in Purgatorio, Kasimir Malevich in Paradiso (ride).

Oggi si parla tanto del cosiddetto boom dell'arte contemporanea africana. Ma c’è davvero?
Nel 1991, l'anno in cui uscì il primo numero della Revue Noire partecipavo a una tavola rotonda con l’allora direttore artistico di Documenta, Jan Hoet, che a un certo punto disse che non esistevano artisti africani. Mi inalberai col tipico ardore della giovinezza e lo trattai da imbecille, mettendogli davanti il primo numero della rivista. Passarono tre mesi e Hoet mi richiamò: voleva i contatti di tre degli artisti di cui parlavamo in quel numero. Voleva invitarli a Kassel. Questo per dire che non c'è boom. La gente non si è svegliata improvvisamente. Le cose si sono sviluppate in modo progressivo. Ricordo un tipo che parecchi anni fa si era messo in testa di fare una mostra di fotografia africana e si era rivolto a me e io lo avevo indirizzato a una curatrice americana… Questo tipo, dopo Documenta di Kassel ha fatto anche la Biennale di Venezia l'anno scorso: Okwui Enwezor (e la mostra a cui fa riferimento Njami era probabilmente In/Sight: African Photographers, 1940 to the Present, realizzata al Guggenheim di New York nel 1996, ndr). Per chiarire ancora meglio, faccio un altro esempio. El Anatsui, che a Venezia nel 2015 ha ricevuto il Leone d'oro alla carriera. Una volta mi hanno chiesto: «Lo hai scoperto tu El Anatsui?». Ma siete matti? Ho risposto. El Anatsui lavora da molto prima che io arrivassi. El Anatsui si è scoperto da sé. Quello che sta accadendo oggi, più che nel passato, è che ci sono lotte a livello del marketing, per accaparrarsi la paternità di questo o di quell’artista.

Torniamo all’espressione “arte contemporanea africana”. Cosa vuol dire?
Ci sono due visioni contrapposte: una "magica" e una contemporanea. Due visioni dell'arte che corrispondono a due visioni dell'Africa. La prima è ereditata dalla famosa mostra Magiciens de la Terre, curata da Jean-Hubert Martin e realizzata al Centre Pompidou di Parigi nel 1989, che considera l'arte africana avvolta da un’aurea mistica e primitiva. Per essere ancora più chiari: a Parigi Martin porta persone che facevano bassorilievi nella sabbia o costruivano i sarcofaghi e le eleva al ruolo di artisti concettuali. Per me questi non sono artisti. Sono artigiani, spiriti religiosi, ma non artisti. L'artista deve avere intenzioni artistiche ed esserne consapevole. Magiciens de la Terre è stato un grande successo ma ha dato rilievo a tutto quello che personalmente non mi interessa. L'altra visione è la mia, quella che non considera l'arte africana contemporanea come una categoria a parte, ma usa africano in senso storico e geografico. Io guardo gli artisti sempre con gli stessi occhiali, non li cambio in base ai continenti. Revue Noire è stato un mezzo per veicolare questa visione. Riferendomi alla mia visione, la novità del presente è che oggi l'arte contemporanea africana ha molti più strumenti endogeni di diffusione. Penso alla Biennale di Marrakech , alla Fiera d’Arte Contemporanea 1:54 lanciata da Touria el Glaouli, al lavoro di una curatrice come Koyo Kouoh… Tutto questo contribuisce ad alimentare una visione dall'interno ma anche a disseminare le informazioni. Contribuisce alla divulgazione, che è una volgarizzazione in positivo. Non siamo di fronte a un boom ma ad un’evoluzione.

Un curatore degno di questo nome oggi può ignorare l’arte africana?
Assolutamente no. Un'amica tempo fa doveva fare una mostra sulla mondializzazione a Beauburg (centre Pompidou), e mi ha detto: sull'Europa ho tutto, sull'America pure. Sull'Africa niente: mi puoi aiutare? No, ho risposto. Perché se sull'Africa hai niente vuol dire che non sei in grado di fare una mostra sulla mondializzazione.

E’ cambiata la presenza africana nei musei?
In primo luogo è cambiato il senso del museo. Prima era uno spazio di conquista coloniale, un luogo in cui si dimostrava il potere. Oggi vi si esibisce l’estensione e la completezza del sapere. Un museo che si rispetti deve avere opere di tutti i continenti. Da qui la necessità di andare a caccia di opere. Ma c'è gente che non viaggia molto. Va a Venezia ma non ha mai messo un piede in Africa. Ci sono delle trappole. Una è quella dei pochi, soliti noti. L'artista che viene sempre chiamato o citato in rappresentanza, come se ci fosse solo lui. Invece sono moltissimi i creativi al lavoro, e alcuni sono davvero straordinari. Poi c'è il fattore generazionale. Oggi abbiamo strumenti inediti di conoscenza e approfondimento. Avere strumenti non significa necessariamente saperli usare. Però ci sono e l'ignoranza è meno scusabile. Il mondo è effettivamente diventato più piccolo. E' notevole il fatto che qui a Modena abbia vinto un sudafricano. Senza uscire da Modena diventa possibile incontrare l'opera di Santu Mofokeng.

Si sente spesso parlare di Africa autentica. Cos’è autenticamente africano?
Già, cos’è? Poco tempo fa ho tenuto una conferenza in una scuola e un docente mi ha detto: "quello che avete mostrato non è Africa". Cosa volevate? Maschere e tamburi? Quello che avete visto è Africa, anche se non coincide con quello che vi aspettavate. L'idea veicolata dell'Africa è qualcosa di veramente nocivo. Quando si preparava Magiciens de la Terre, mi sono trovato in Costa d’Avorio con il curatore della mostra che si occupava della sezione Africa (André Magnin, ndr) che mi ha chiesto dei consigli. Gli ho segnalato tre artisti. Successivamente lui si è lamentato: "Non mi avevi detto che questi hanno fatto la scuola di belle arti", come se ciò fosse stato un ostacolo. E allora? Ho domandato io. "Volevamo gente autentica". Ma cos'è l'autenticità? La geografia non mente. Prendiamo la fotografia del Sudafrica. Non si può parlare di fotografia sudafricana senza conoscere Mofokeng e David Goldblatt. Ma chi è autentico tra i due? Arte contemporanea africana è una categoria geografica. Serve a farci orientare non a indicare una differenza qualitativa.

Quindi la conversazione si è spostata su Dak’Art e Njami ci ha spiegato come sarebbe stata strutturata la sua Biennale, i dettagli delle mostre e il suo obiettivo non immediato: «Farne un appuntamento degno di figurare nelle agende dell’arte di tutto il mondo. Come succede per Venezia, ogni due anni il mondo dell'arte dovrà mobilitarsi per Dakar. Le scelte però devono essere artistiche e non operate dal ministero della cultura». Le sue argomentazioni e il successo dell’edizione passata devono avere convinto evidentemente il governo senegalese, visto che l’incarico gli è stato appena riconfermato. E noi ci auguriamo di rivedere presto Njami a Milano e chiedergli qualche anticipazione.