Fathi Hassan, l'invenzione della scrittura

A Bologna, all’ultima edizione di Arte Fiera (153 gallerie partecipanti e 48 mila visitatori registrati) c’è stato anche uno spazio dedicato all’arte contemporanea africana. A gestirlo Massimiliano Del Ninno, gallerista che, aprendo Kyo Noir a Viterbo, ha scelto di specializzarsi in questo settore così di moda all’estero ma ancora così poco compreso in Italia. Suo ospite, Fathi Hassan, primo artista africano a partecipare alla Biennale di Venezia.

 

Egiziano di (nobili) ascendenze nubiche, giunto in Italia alla fine degli anni ’70, grazie a una borsa di studio che gli apre le porte dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, Hassan comincia a elaborare proprio qui la sua originale pittura calligrafica. «Ero molto giovane e stavo cercando la mia strada, un medium espressivo adatto a me e che mi consentisse di distinguermi. Usavo la sabbia e altri materiali naturali, ma poi ho avuto un’intuizione. Nella Nubia, la mia regione d’origine, non c’è la scrittura. Le storie e la storia si tramandano oralmente. Ho pensato di che avrei potuto rovesciare paradossalmente questa assenza, raccontando nei miei quadri delle storie, attraverso una scrittura criptica, in bianco e nero, in grado di evocare l’arabo ma assolutamente inventata. Infatti, io solo capisco cosa scrivo. Tutti gli altri, però, nei miei quadri e nelle mie installazioni possono riconoscere la traccia di un racconto». Un’intuizione felice, senza dubbio. Il talento del giovane artista “esotico” viene riconosciuto nei giri che contano. Nel 1988, Achille Bonito Oliva lo fa approdare alla sezione Spazio Aperto della Biennale. La scrittura inventata si rivela il mezzo ideale per evocare molte cose: l’eredità nubica, il rapporto conflittuale tra quella regione e l’Egitto, la necessità e i limiti delle traduzioni, la condizione del migrante e il faticoso privilegio dell’ appartenenza multipla. Con le dovuta distinzioni, l’alfabeto di Hassan richiama quello di un altro artista africano, l’ivoriano Frédéric Bruly Bouabré. Non nella sua fenomenologia stilistica, ovviamente, ma per l’anelito di rappresentazione, conservazione e testimonianza che ne è il fondamento. Bouabré, non a caso, è uno degli artisti più amati da Hassan: «Un riferimento, un modello». Come Jean-Michel Basquiat, d’altronde: un altro abituato a usare pittoricamente la parola. Dopo la Biennale ha cominciato ad esporre. Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Libano, nei Paesi Bassi. Ha partecipato anche alla Biennale di Dakar, nel 2008. Suoi lavori sono stati acquisiti nelle collezioni permanenti di importanti musei, come The Victoria and Albert a Londra o lo Smithsonian a Washington DC. «Molte mostre all’estero e in confronto ben poco in Italia. Per questo Paese sono sempre rimasto troppo esotico. Ma anche l’Egitto non mi ha mai riconosciuto: mi considerano troppo occidentale per essere egiziano». Particolarmente importante, nella sua evoluzione artistica, è stata la partecipazione al Rose Issa Projects nel 2010, con la mostra Haram Aleikum al londinese Leighton House Museum. Rose Issa, lo ricordiamo, è una curatrice che negli ultimi 30 anni si è spesa per creare ponti tra l’Europa e i talenti mediorientali, promuovendo gente come Abbas Kiarostami o Rachid Koraichi, per intendersi. In questo momento (e fino al 26 maggio), Hassan ha una personale in corso negli Stati Uniti: Edge of Memory, all’Art Museum della Clark Atlanta University (), che nella sua collezione permanente raccoglie i lavori di importanti artisti afroamericani. «A prima vista può sembrare non esserci relazione tra la loro opera e una retrospettiva come questa», osserva la direttrice del museo e curatrice Maurita Poole. «Io trovo invece che ci sia una risonanza concettuale e tematica molto forte. Hassan ha elaborato un modo originale e altamente sofisticato per rappresentare l'alienazione e la sofferenza, che può essere paragonato a quello di artisti come Hughie Lee-Smith e John Biggers. La mia speranza è che i visitatori colgano e valorizzino questo elemento comparativo». Speranza più che condivisa dal diretto interessato. «L’arte dovrebbe aiutare sempre a cogliere i nessi, ad allargare la visione. E’ una grande soddisfazione per me ritrovare il mio lavoro inserito in una cornice di senso così ampia. Maurita Poole, non mi conosceva, se non attraverso internet. Mi ha contattato per email e mi ha invitato. In Italia difficilmente accadono cose simili. Ci si muove sempre all’interno di reti di relazioni. Per chi non ne ha non ci sono mostre, non ci sono articoli, non ci sono possibilità». Anche per questo, oltre che per stare più vicino al figlio, sei anni fa Hassan si è trasferito a Edimburgo. «Qui finalmente mi considerano nel modo che preferisco: un artista, punto. Stare lontano dai principali circuiti dell’arte in fondo è una buona cosa: ci si distrae meno e si lavora di più».