Dak’Art 2016: nel Blu dipinto di Blu

di Simona Cella

Il verso di una poesia di Senghor, La cité dans le jour Blue, utopia di una città e di un continente libero è stato l’orizzonte che ha ispirato Simon Njami nella direzione della 12° Biennale di Arte contemporanea di Dakar svoltasi dal 3 Maggio al 2 Giugno.
Scrittore e curatore indipendente, alter ego francofono di Okwi Enwezor, Njami è stato chiamato all’ultimo per salvare una Biennale che pur longeva ed importante è sempre sull’orlo della crisi economica e d’identità. Coadiuvato da un comitato di 5 curatori, Njami ha selezionato 66 artisti provenienti da 19 nazioni africane (Sénégal, Burkina Faso, Camerun, Maroc, Kenya, Mozambique, Ghana, Egitto, Sudafrica, Nigeria, Congo, Etiopia, Tunisia, Costa d’Avorio , Malawi, Sudan, Madagascar, Algeria, Burundi) e cinque della Diaspora (Stati Uniti, Francia, Italia, Bahamas, Portogallo).

La scelta di formare un comitato di selezione internazionale con curatori indipendenti provenienti da India, Corea, Brasile, Camerun, Italia e Canarie, dettata principalmente dall’intenzione di alzare la qualità degli artisti selezionati e dall’ambizione di rafforzare il carattere internazionale della Biennale, è stata occasione di scoperta di spazi artistici non esplorati dall’Europa e ha simboleggiato la rottura di un asse Nord/Sud vissuto spesso come limitante. La maggior parte delle opere è stata selezionata dai 327 dossier di candidatura ricevuti, mentre una ristretta rosa di artisti, tra i quali Ouattara Watts, Bili Bidjocka,Theo Eshetu, Kader Attia, è stata invitata direttamente da Njami che ha rivendicato il carattere non democratico di un curatore d'arte. Una Biennale ambiziosa e non priva di fascino, che si è articolata in tre nuclei tematici. Réenchantement , scelto come titolo dell’esposizione internazionale e principio ispiratore della manifestazione, è stato l’invito rivolto agli artisti ad inventare nuove strade per re-incantare il mondo e il continente e per celebrare il sogno di un’Africa libera e responsabile, recuperando lo spirito di utopia delle Indipendenze . All’interno di Contours hanno trovato spazio le esposizioni proposte dai curatori e dai due paesi ospiti: il Qatar, invitato a detta da Njami direttamente dal presidente Macky Sall per ragioni di business e la Nigeria scelto invece, con una vena di polemica, in quanto paese con grandi potenzialità economiche (è uno dei finanziatori della Tate Gallery ) ma ancora poco attivo nella promozione dell’arte contemporanea africana. Infine Bandung, riferimento alla città indonesiana che nel ’55 ospitò la storica conferenza afroasiatica dei paesi non allineati, ha offerto un programma di seminari e dibattiti, per riflettere su un mondo dell’arte non appiattito sul sistema museale di stampo europeo. Intorno a questi tre capitoli , una costellazione di eventi tra i quali segnaliamo Hommages dedicata ad artisti scomparsi, una Carte Blanche offerta a Doual’art e Urbi curata dallo stesso Njami insieme a Delphine Calmettes con l’obiettivo di costruire una rete attraverso la città e trasformare artisticamente luoghi popolari come La Corniche, il Mercato, Place d’Independence.

 

 

fotografie di Simona Cella e tratte da Tempo e rivoluzione a Dak’art 2016 di I. Pensa - Domusweb.it 24 06 2016


Urbi è stato inoltre un ponte con la piattaforma Off che, giunta alla settima edizione e sostenuta da Eiffage, ha proposto 250 eventi di arte contemporanea popolare. Il Modello Off, promosso in tutta la città con una guida gratuita fornita di utili piantine, ha creato negli ultimi anni, grazie alla guida di Mauro Petroni, ceramista e gallerista, un modello partecipativo vincente che ha dato vita ad altre iniziative indipendenti quali Partcours, rete di gallerie d’arte che ogni anno propone una settimana di mostre e vernissage.
Una Biennale popolare e internazionale quindi che ha trasformato Dakar in una città utopica reinventando alcune architetture piene di fascino ma in stato di abbandono.
In primis l’Ancien palais de Justice, esempio di monumentale architettura fine Anni 50, inaugurato nel Dicembre del 1958 e abbandonato nella seconda metà del Duemila per questioni di sicurezza. Una delle tante necropoli d’Africa, come lo definisce Jean Pierre Bat in un bel fotoreportage su Liberation che racconta l’abbandono attraverso suggestive immagini delle aule di giustizia e della grande corte centrale sommerse da montagne di documenti, pezzi di arredamento e vetusti computer.(http://libeafrica4.blogs.liberation.fr/2015/12/20/les-grandes-necropoles-contemporaines-le-palais-de-justice-de-dakar/) Identificato ormai solo come capolinea dei bus Dem Dik, il Palais è stato scelto con geniale intuizione come sede dell’esposizione internazionale che ha ospitato installazioni, fotografie, video e opere di pittura.
Due installazioni, tra loro complementari, hanno colto in pieno il significato della location, ricreando con un effetto quasi cinematografico, l’atmosfera di un Palazzo che nel passato è stato un luogo di messa in scena del Potere e della Giustizia.
Maurice Monteiro, fotografo Belga -Beninese residente a Dakar, per la sua installazione P(resident), Ceci n'est pas une Phenix, Père de la Nation ha utilizzato le pareti scrostate di una Aula di Giustizia come scenografia per una beffarda rappresentazione del potere autocelebrativo dei cosiddetti Padri della Nazione. Fulcro dell’installazione una sarcastica rievocazione del trono di Bokassa, autoproclamatisi, nel Dicembre 1977, Imperatore del Centrafrica. Del potere dell’Imperatore rimane qui un trono vuoto, fedele replica della seduta che in tripudio di oro e rosso rappresentava una fenice. Un trono metaforicamente vuoto, ma animato dagli altisonanti e ridicoli discorsi di dittatori del Continente, memoria storica che non può essere cancellata dal gioco dell’arte. Sullo stesso trono in una serie di grandi ritratti fotografici appesi alle pareti, che riecheggiano vagamente il lavoro in serie di Samuele Fosso, siedono Le Président Fondateur, Le Guide Suprême, Le Père de la Nation, Le Grand Timonier, ironiche variazioni sul tema.
Contraltare di questo potere gravido di rosso sangue e oro, le scritte a spray rosso e blu che rievocano le recenti rivoluzioni, da Y'en a marre in Senegal, alla rivoluzione in Burkina Faso, proteste spontanee e popolari che hanno spazzato via il vecchio potere prendendo in prestito idee ed energie da movimenti urbani e globalizzati come il rap e l'hip hop.
La Rivoluzione è celebrata anche in un Aula attigua dal camerunese Bili Bidjocka che ha ricostruito, come in un set cinematografico, una “scena da una rivoluzione” che ricorda le immagini dell'assalto all'Assemblea Nazionale riprese nel documentario Une Revolution Africaine.Les dix jours qui ont Fait chuter Blaise Campaore
Il pavimento coperto di terra e calcinacci ricorda la distruzione necessaria ad una rivoluzione mentre le frasi incastonate nei mosaici delle pareti reinterpretano la pratica della scrittura automatica surrealista che rivendicava un'arte rivoluzionaria e irriverente. Così intorno allo slogan REVOLUTION , in ordine sparso, un ironico mix di concetti e parole in libertà : CECINESTPASMONCORPSVOUSNEPOUVEZPASLESCONSOMMER, ACCUMULATIONDESCORPSFETICHES, #MAKEUSPOORTHENSHOOTUS, KAPITALISME, TIERSMOND.........Un dittico, quello offerto da Monteiro e Bidjocka, che riflette sul Potere e la Rivoluzione completando il racconto delle Rivoluzioni Africane Contemporanee filmato recentemente da alcuni cineasti e video artisti (Une Revolution Africaine.Les dix jours qui ont Fait chuter Blaise Campaore di Gidéon Vink e Boubacar Sangaré, The Revolution Won’t Be Televised di Rama Thiaw, Opening Stellenbosch from assimilation to occupation di Aryan Kaganof, Black President di Mpumelelo Mcata) .

Fantasmi delle Rivoluzioni arabe aleggiano tra le pareti del Palazzo nelle opere di artisti di Maghreb ed Egitto. L’installazione Les Rhizomes infinies de la revolution dell' algerino Kader Attia, introdotta da una rassegna stampa internet su Intifada e Siria, ha ricreato una foresta di alberi di ferro, quasi tumuli funerari a ricordo di come le rivoluzioni nascano spesso da un lancio di pietre.
Ma è Speak2Tweet video di Heba Y. Amin, che colpisce al cuore per rigore stilistico e densità di contenuto. Un film sperimentale che utilizza come colonna sonora i messaggi telefonici inviati agli inizi del 2011 ad una piattaforma sperimentale che postando su Twitter aggirava il blocco Internet imposto dal regime di Mubarak . Un archivio sonoro della Rivoluzione e dell’inconscio collettivo che la regista giustappone ad un’ ipnotica esplorazione visiva di alcuni edifici abbandonati dopo la caduta del regime.
Un lavoro che Heba Amin, videoartista e ricercatrice egiziana che investiga le convergenze tra politica, tecnologia media, urbanismo, intende utilizzare come strumento didattico e di riflessione sulle implicazioni politiche dell’uso dei social network e sui destini degli attivisti nella post rivoluzione.
Altre rovine dalla Siria distrutta dalla guerra hanno dato origine tre anni fa al lavoro in progress Maqam dell’ egiziano Youssef Limoud, premiato con il Grand Prix Léopold Sédar Senghor, che qui ha preso la forma di una città polverosa, miniatura di una Dakar immaginaria. Allestita in tre giorni, utilizzando gli oggetti trovati nel palazzo , Maqam racconta una Dakar in continua costruzione, che dietro il cemento e la sabbia nasconde una fragile armonia.
L’aspetto narrativo dell’opera, spiega l’artista, è enfatizzato dal titolo Maqam, che in arabo ha più significati: una casa, un po' posto dove ci si sente bene ma che contiene nostalgia, un altare, luogo sacro di sepoltura dove le persone si recano in pellegrinaggio per ricevere una benedizione e infine un ritmo della musica araba.
“Maqam” è stato sopratutto un amorevole omaggio alla Cité dans le Jour Bleu, perché camminare nel Palazzo, dice Limoud cogliendo pienamente nel segno, è come camminare attraverso Dakar.

Tra gli artisti senegalesi esposti l’opera più interessante è «Encyclopédie» di Ndoye Douts 600 quadretti di 10 cm² che raccontano il mondo attraverso articoli di giornale incollati su un fondo blu, colore scelto dall’artista alchimista per dare speranza ad un mondo intriso di paura.


Al limite dell’impraticabile a causa dei persistenti problemi tecnici, la sezione video si è invece rivelata deludente. Tranne il già citato Speak2Tweet e Meditation Light un lavoro del 2006 di Theo Esethu, segnaliamo Lazi Nigel di Simon Gush, artista di Johannesburg, che offre una raffinata esplorazione del tema del lavoro e del tempo libero.

Lo strumento video è stato al contrario bene utilizzato nel progetto «Dakar Carrefour des cultures Ces signes au mur» che ha offerto la possibilità, grazie a una residenza artistica, a 10 artisti senegalesi di studiare le tecniche del videomapping e sperimentarle live in tre luoghi di Dakar: L’Hotel de Ville, Rond-Point Médina, la Gare, costruzione in stile coloniale in disuso da anni ma sapientemente animata dal collettivo Afrosiders con spazio bar, concerti. Mal utilizzato invece Il nuovo che avanza, incarnato dal Centre international de conférences Abdou-Diouf, situato nella futuribile Smart City di Diamniadio, che dovrebbe sorgere prossimamente per decongestionare Dakar.
Un’architettura iper moderna, catapultata nel vuoto e raggiungibile con rare navette in stile Afro Vintage ha accolto in ordine sparso fotografie, sculture e oggetti di design selezionati da Salimata Diop. Un allestimento senza cura che non ha saputo integrare la sezione design con quella fotografica. Abbandonate a loro stesse le raffinate ceramiche di King Houndekpinkou che fonde la tradizione giapponese del Raku con le sue origine beninesi e le grandi sedie di Ousmane Mbaye, linee leggere, bianche, essenziali che partono da una riflessione sull'essere umano.Allestite malamente anche le divertenti gigantografie di Captain Rugged, supereroe africano e alter ego del musicista nigeriano Keziah Jones presente alla Biennale con due concerti
Riguardo a storici spazi espositivi della Biennale, sorvoliamo sull’imbarazzante collettiva senegalese alla Galerie National e la deludente Maison Sentimentale presso La Galleria Le Manege, poco interessante omaggio alla Revue Noire composta dall’artista malgascio Joël Andrianomeariso. Piu pubblicità che arte ha dato spazio più alla auto celebrazione della rivista e alla velleità poetica di Jean Luc Pivine che all’artista stesso.
Sempre a Le Manege, con un allestimento purtroppo sacrificato è stato esposto Le maggic
Interessante lavoro fotografico di Adji Dieye che indaga con ironia e occhio critico l’impatto del Maggi, popolare dado da cucina, all’interno della società senegalese. Rielaborando la tradizione del ritratto resa celebre da Seydou Keïta, Mama Casset e Oumar Ly ma lasciando libertà di movimento alle donne fotografate, modelle disilluse e un po' snob, Dieye ha ben colto l’invasivita’ del messaggio pubblicitario creando fotografie sature dell’inquietante logo rosso e giallo, onnipresente ormai nella cucina di tutte le famiglie senegalesi.

Non ha deluso invece il dovuto omaggio a Soly Cissé presso l’Atelier di Mauro Petroni e l’allestimento dell’Espace Medina che ha presentato la propria facciata ricoperta di abiti e accessori provenienti da Europa, Asia e Stati Uniti e che in Senegal vengono riempiti con nuove storie.
Segnaliamo infine le belle sculture lignee di Diagne Chanel che con L’Allée de la Reine ha impregnato l’Hotel de Ville di un’atmosfera alla Maigritte e la scelta della Galleria Mame di Doula di esporre le proprie opere in due cantieri, con operai al lavoro che sembravano comparse di un’installazione
Scommessa vinta quindi da Dakar, che per un mese si è trasformata in città utopica in grado di fare incantesimi artistici e vitali.

pubblicato su Africa & Mediterraneo n.85